Discriminazione sul luogo di lavoro
Cosa vuol dire «discriminazione nei luoghi di lavoro»
Per discriminazione in ambito lavorativo s'intende una differenza di trattamento ovvero una classificazione e suddivisione in categorie dei collaboratori e delle collaboratrici. Le discriminazioni si possono manifestare in svariati modi e possono assumere diverse dimensioni. Esistono forme di discriminazione che possono essere dovute alla razza, alla religione, alle convinzioni personali, a una disabilità, all'età, all'identità sessuale o al genere.
Alcuni esempi:
- vorresti partecipare a una selezione del personale ma non puoi perché è riservata solo agli uomini/alle donne
- il tuo collega, che ha meno competenze di te, viene promosso
- al colloquio di lavoro ti hanno chiesto se hai figli/intendi avere figli
- a un colloquio di lavoro ti hanno detto che non possono assumerti perché porti il “velo”
- a parità di ruolo, i tuoi colleghi maschi guadagnano di più
Discriminazione diretta nel lavoro
La discriminazione diretta nel lavoro è definita in diversi modi dalle fonti normative. In genere, le direttive europee definiscono la discriminazione diretta come quella situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente, in base a un determinato fattore c.d. di rischio (discriminatorio), di quanto un’altra persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga.
E’ discriminazione diretta la situazione nella quale una persona è trattata, in base al sesso, meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga.
Un esempio classico è la mancata promozione di una lavoratrice perché è donna.
Discriminazione indiretta
La discriminazione indiretta può essere definita come una previsione, un criterio o una pratica apparentemente neutri (che non operano cioè una classificazione sulla base di un fattore c.d. di rischio) che può mettere le persone di una determinata razza, origine etnica, religione, disabili o che hanno una determinata età o un certo orientamento sessuale, identità di genere, nazionalità o qualsiasi altra caratteristica protetta, in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, a meno che la disposizione, il criterio o la pratica siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima, e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari al raggiungimento del fine.
Alcuni esempi di discriminazione indiretta:
- la statura minima richiesta per la partecipazione a un concorso e tarata su medie maschili: va da sé che non vi è discriminazione sulla singola persona, ma adottando un simile criterio di selezione indubbiamente si avvantaggiano gli uomini rispetto alle donne;
- la previsione di una particolare indennità solo per dipendenti che abbiano sempre optato per il “full-time”; le donne che più spesso richiedono il “part-time” per ragioni di conciliazione fra casa e lavoro, ne sarebbero indirettamente escluse.
Per capire se un atteggiamento o una scelta sono discriminatori in maniera indiretta si deve considerare il risultato che essi producono in concreto e non l’intenzionalità o l’atteggiamento psicologico del soggetto discriminante (che può essere convinto di agire legittimamente, ma che compie comunque un atto discriminatorio).
L’onere della prova
Il lavoratore o la lavoratrice che ritiene di essere stato discriminato ha l’onere di fornire elementi idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di atti o comportamenti discriminatori.
La sussistenza di tali elementi determina l’inversione dell’onere probatorio e la necessità per il datore di lavoro di provare l’insussistenza dell’intento discriminatorio.
Data creazione: Wed Oct 11 14:31:52 CEST 2023