Il ritorno a Milano. La Scala
Mentre l’Italia faticosamente prendeva forma, Verdi continuò a comporre. Raggiunta la piena maturità artistica la forma e lo stile divennero sempre più chiari, limpidi e potenti. In una lettera del 1861 a Ricordi il bussetano annunciò d’aver completato “La forza del destino”, un melodramma di grande vigore musicale, in cui si intrecciano elementi tragici e sottili spunti comici. Per la Prima della sua nuova opera Verdi — ormai protagonista indiscusso della scena internazionale — sceglie San Pietroburgo, la capitale della lontana Russia. Un successo pieno.
Rientrato in Italia il Maestro si ritirò nuovamente nel suo eremo emiliano ma Milano lo attendeva. Un appuntamento obbligato. Diamo allora voce a Barigazzi: «Tignoso come sa esserlo soltanto un contadino della Bassa, il compositore celebre e conteso dai teatri di tutto il mondo continuava ad essere indignato nei confronti della Scala, non perdeva occasione per mantenere le distanze prese tanti anni prima ma cominciava anche a riavvicinarsi, sollecitato dall’editore Tito Ricordi a rappresentare la nuova edizione de “La forza del destino”… Tito si adoperò molto per riportare Verdi alla Scala, mandandogli ambasciate attraverso il figlio Giulio, e mettendo di mezzo la commissione teatrale e il sindaco Belinzaghi. Non aveva detto Verdi, dopo una rappresentazione di “Macbeth”, avvenuta nel gennaio 1852, che mai avrebbe scritto per un teatro ove si assassinano le opere… riportare Verdi alla Scala con una mezza novità e per di più con l’incarico di sovrintendere all’esecuzione, cosa che lo avrebbe costretto a rimettere piede in teatro, fu già un buon successo». Nel dicembre del 1868, ventitré anni dopo la clamorosa rottura, Verdi ritrovava il suo pubblico e la città che tanto aveva amato in gioventù. L’opera andò in scena la sera del 20 febbraio 1869 con una giovane protagonista d’eccezione: Teresa Stolz.
Il secondo e definitivo passo nella riappacificazione tra il teatro scaligero e il Maestro fu la Prima europea di “Aida”. L’opera gli era stata commissionata da Ismail Pashà, khedivè (il vicerè) d’Egitto, per i festeggiamenti per l’apertura del canale di Suez. All’inizio Verdi nicchiò ma il khedivè insistette con argomenti convincenti: un ottimo compenso e la minaccia di rivolgersi, in caso di diniego del bussetano, a Richard Wagner, il grande rivale tedesco. L’artista emiliano accettò.
Il capolavoro verdiano andò in scena, in Prima europea, l’8 febbraio 1872, un mese e mezzo dopo la prima rappresentazione all’Opera del Cairo — a cui il Maestro non partecipò, ma Ismail Pashà, entusiasta, inviò in dono due preziosi mobili intarsiati, oggi esposti a Casa Verdi — con Teresa Stolz— ovviamente — Giuseppe Fancelli e la direzione di Francesco Faccio. L’accoglienza del pubblico fu magnifica come descrisse, con una certa enfasi, il redattore della “Gazzetta Musicale di Milano”: «A quest’ora il telegrafo ha portato la lieta novella dovunque: il genio musicale italiano ha guadagnato un’altra battaglia, contro quell’occulto nemico che si chiama il tempo, “Aida” per voto del pubblico cosmopolita della Scala è un altro capolavoro. La storia della serata è questa: applausi vivissimi a quasi tutti i pezzi, 32 chiamate al Maestro, delle quali otto alla fine dell’opera; dopo il secondo atto fu presentato a Verdi uno scettro d’avorio ed oro, ornato da pietre preziose; buona l’esecuzione, buone le scene, ottima l’orchestra, splendido il vestiario, pubblico affollato come non si vide mai l’eguale nonostante i prezzi elevati delle sedie e dei palchi. Totale: trionfo».
Come al solito Verdi brontolò. Sebbene soddisfatto dell’esecuzione e del pubblico non gradì i commenti della critica — abbastanza ingenerosi — e l’atteggiamento dei vertici scaligeri. “Critiche stupide”, scrisse, “ed elogi più stupidi ancora. Non un’idea elevata, artistica, non uno che abbia voluto rilevare i miei intendimenti, spropositi e sciocchezze sempre, e in fondo a tutto un non so che d’astioso come se avessi commesso un delitto scrivendo e facendo eseguire bene “Aida”. Nessuno infine, che abbia voluto rilevare almeno il fatto materiale d’una esecuzione e d’una mise en scéne insolite!”.
Dopo “Aida” Verdi si ripiegò nella vita privata e smise di comporre. Il mondo stava cambiando velocemente, forse troppo velocemente e il Maestro, forse a disagio, preferì osservare e meditare. Ruppe il silenzio soltanto nel 1874 per scrivere la splendida “Messa da Requiem” per Alessandro Manzoni, vecchio amico e suo principale riferimento intellettuale, deceduto l’anno prima. «Il requiem venne eseguito nella chiesa di San Marco il 22 maggio 1874, primo anniversario della morte dello scrittore. Direttore Giuseppe Verdi, solisti la Stolz, la Waldman, Giuseppe Capponi e Ormondo Maini; il 25 maggio veniva presentato al pubblico de La Scala. Date storiche, nella storia di Milano e Della Scala. Era stato lo stesso Verdi a proporre al sindaco Belinzaghi di organizzare la manifestazione celebrativa del primo anniversario della morte. L’adesione fu entusiastica, forse fin troppo a giudicare dalla risposta di Verdi: “Non mi si devono ringraziamenti né da lei né dalla Giunta, per l’offerta di scrivere una messa funebre per l’anniversario di Manzoni. È un impulso o, dirò meglio, un bisogno del cuore che mi spinge ad onorare, per quanto posso, questo Grande che ho tanto stimato come scrittore e venerato come uomo, modello di virtù e di patriottismo». L’uomo era fatto così.
Ad allungare e immalinconire il tempus tacendi verdiano concorsero altri fattori. Dopo la morte nel 1867 di Antonio Barezzi, l’amico di una vita, la terribile malattia di Francesco Piave, compagno fedele di tante avventure artistiche e scorribande galanti, e l’esplodere della gelosia di Giuseppina per Teresa, Verdi si ritrovò sempre più solo, amareggiato. Per di più, orgoglioso com’era, lo ferivano le critiche spietate dei giovani “scapigliati” milanesi, antiromantici e modernisti. Per Giuseppe Rovani, Emilio Praga, Ugo Tarchetti e Arrigo Boito e gli altri “musicisti dell’avvenire” il compositore bussetano era ormai un uomo del passato, simbolo di un’Italia vecchia e di un’arte superata. Boito in particolare, attaccò con foga tutta giovanile — non a caso aveva preferito combattere nelle fila dei garibaldini e non in quelle del Regio Esercito — il compositore; un suo pubblico brindisi “alla salute dell’arte perché la scappi fuori un momentino dalla cerchia del vecchio e del cretino” offese profondamente Verdi. In una lettera all’amico Piave del 21 maggio 1865, Il Maestro liquidò i suoi contestatori con ironia:” Non ti spaventare per questa Babilonia della “musica dell’avvenire”. Anche questo sta bene così. Questi così detti apostoli dell’avvenire sono iniziatori d’una cosa grande sublime. Era necessario lavar l’altare imbrattato dai porci del passato. Ci vuole musica pura, vergine, santa sferica! Io guardo molto e aspetto la stella che m’indichi ove sia nato il Messia, ond’io, come i re Magi, possa andare ad adorarlo!”.
Data creazione: Thu Jun 29 16:05:04 CEST 2017