Milano, il laboratorio della modernità
Ma perché il giovane musicista in quel lontano 1832 decide di restare a Milano? Una domanda centrale nella lunga vicenda verdiana, che merita d’essere indagata.
Come vedremo, nella città ambrosiana il giovane “provinciale” e “straniero” — ricordiamo che al tempo “Peppino” è suddito di Sua Grazia Maria Luigia, duchessa di Parma e Piacenza — dispone, grazie ai suoi benefattori, di alcuni appoggi e sostegni che gli consentono di proseguire gli studi privatamente e, poi, d’aprirsi la strada nell’intricato mondo artistico meneghino. Sarebbe però errato ridurre la scelta — decisamente impegnativa — ad una mera convenienza.
A differenza delle altre città italiane del tempo, Milano — malgrado le sue dimensioni ancora ridotte — è un centro europeo di prima grandezza. Come annota Nanda Torcellan, «durante la Restaurazione Milano è la città più mondana d’Italia, la buona società milanese è aperta ai ceti emergenti e accoglie con interesse i viaggiatori stranieri e almeno nei primi anni anche i rappresentanti del governo austriaco. Stando sempre alla testimonianza di Stendhall, nella festosa Milano degli anni Venti nobili e borghesi avevano l’abitudine di passare da un salotto all’altro e di concludere la serata a La Scala; le case ospitali erano aperte dal pomeriggio a tarda sera ai numerosi amici, i personaggi più noti del mondo culturale, agli stranieri».
Il giovane Verdi, ormai insofferente della pigra vita nel natio ducato, rimane affascinato dalla vita culturale e artistica e dalle dinamiche sociali della capitale del Lombardo Veneto. Dopo la bufera napoleonica e l’esperienza del Regno Italico, l’aristocrazia milanese (detestata dal principe Metternich che, non a caso, priva di privilegi e titoli gran parte della nobiltà lombarda) non è più la chiusa e frivola società “cintata” dileggiata dal Parini, ma è (o si vuole immaginare) cosmopolita, colta e moderna. Mentre i ceti dirigenti disertano l’ormai cupo palazzo vicereale — nel tempo austriaco i fasti di Eugenio di Beauharnais sono ormai un ricordo —, si aprono salotti — ben diversi da quelli settecenteschi — e nuovi circoli associativi: spazi aperti al piacere dell’incontro, alla discussione (anche politica) e alla cultura. Luoghi liberi in cui sono ammessi i rappresentanti della borghesia emergente, gli intellettuali e gli artisti affermati. Non a caso, dopo il trionfo de “Il Nabucco”, Verdi — il “campagnolo” di Busseto — verrà invitato nell’esclusivo salotto della contessa Maffei.
Ma vi è di più. Negli anni Trenta dell’Ottocento, Milano diventa il riferimento primario dell’editoria italiana. Grazie all’impegno d’imprenditori come Vincenzo Ferrario, Giacomo Pirola, Antonio Stella, dei Sonzogno, dei Ricordi e dei Lucca — i grandi editori musicali su cui ritorneremo nel nostro viaggio nel mondo verdiano — nasce un’industria della carta stampata di respiro europeo e si afferma un punto di riferimento per le intelligenze della penisola — Leopardi in primis — ormai insofferenti delle obsolete chiusure municipaliste. È un passaggio importante che conferma la centralità della città — in quegli anni una vera “Lipsia d’Italia” come ha scritto Franco Della Peruta — nel panorama nazionale e internazionale.
Accanto ai libri vi sono poi le riviste, i giornali. Iniziative ancora elitarie — l’analfabetismo, malgrado gli sforzi innegabili dei napoleonidi e degli asburgici rimane una piaga diffusa —, ma importanti. Nella capitale del Lombardo Veneto si pubblica non solo il “il Conciliatore” di Confalonieri e Pellico (un’esperienza controversa ma importante, conclusasi tragicamente con le condanne al carcere duro dello Spielberg), ma anche gli “Annali di Statistica” di Francesco Lampato e Gian Domenico Romagnosi, poi il “Politecnico” di Cattaneo e la “Rivista Europea” di Tenca. Insomma a Milano — a differenza di gran parte d’Italia e nonostante la presenza austriaca — vi è un’opinione pubblica e una capacità di elaborare pensiero.
Un fermento che inevitabilmente ha un riflesso politico. «L’abitudine alla tolleranza, l’apertura a personalità di diversa estrazione sociale, la curiosità per le idee nuove che giungono dall’estero, la diffidenza verso il governo asburgico dopo i processi del 1821, finiscono per avvicinare i salotti alle idee liberali. D’altronde la rigidità della corte di Vienna nei confronti dell’aristocrazia milanese, esclusa in molti casi dalla corte e sospettata di liberalismo, allontana progressivamente la buona società dal governo austriaco, favorendo la diffusione nei salotti di una mentalità liberale, autonomistica e, in alcuni casi, filopiemontese, che si traduce in una attiva partecipazione nei moti del 1848».
Data creazione: Thu Jun 29 14:45:21 CEST 2017