Il tempo della politica
Nel frattempo la ruota della storia iniziò a girare vorticosamente. Il ’59 si annunciò da subito decisivo. Il primo gennaio Napoleone III maltrattò, durante il tradizionale ricevimento del corpo diplomatico, l’ambasciatore austriaco. Pochi giorni dopo, a Torino Vittorio Emanuele fece il discorso più importante della sua vita. Davanti alle camere riunite, il sovrano pronunciò una frase decisiva: “nel mentre che noi rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi”. L’effetto fu enorme. Una nuova febbre bellicista pervase lo Stivale e tutte le fazioni, comprese le più ostili ai Savoia, si strinsero attorno al Piemonte ed al suo re. Anche Milano entrò in fibrillazione: il 29 gennaio il pubblico scaligero si unì al coro della “Norma” che invocava dal palco “guerra! guerra!”.
Il governo austriaco si allarmò e denunciò le manovre sarde; le potenze europee cercarono una mediazione e Napoleone sembrò esitare ma, ad aprile, a Vienna prevalse il partito interventista e fu la guerra. Dopo una serie di schermaglie iniziali, il quattro giugno i franco-piemontesi sconfissero a Magenta gli imperiali e l’otto giugno Napoleone e Vittorio Emanuele entrarono trionfalmente in Milano liberata. Alla Scala «il dieci si fece gran festa con un’accademia vocale e strumentale alla presenza dei due sovrani. Vi parteciparono l’orchestra, il coro, il corpo di ballo, gli allievi della scuola di ballo, cantanti, la banda civica. Il 14 giugno si eseguirono il primo e il quarto atto de “Il Trovatore”, altri pezzi d’opera e un ballo».
Il 24 giugno gli austriaci sferrarono una controffensiva tra Solferino e San Martino: 120mila asburgici affrontarono 80000 francesi e 30000 piemontesi. Gli alleati vinsero, ma sul campo rimasero quasi 40mila caduti d’entrambi gli schieramenti. Un massacro. Napoleone, turbato dalle perdite, incontrò a Villafranca il giovane collega Francesco Giuseppe, anch’egli scosso dal costo della battaglia. I due sovrani decisero l’armistizio, relegando i piemontesi in secondo piano. La seconda guerra d’indipendenza si concluse così, nell’amarezza dei patrioti che videro svanire l’ipotesi di una vittoria completa. Verdi da Sant’Agata seguì gli eventi, lagnandosi per l’età che gli impediva d’arruolarsi e si disperò per Villafranca che considerava, come tutti i patrioti, “un orrido tradimento ai danni della Patria”; sconsolato, scrisse all’amica Clarina Maffei “noi non avremo mai nulla a sperare dallo straniero, qualunque nazione sia!”.
Intanto, proprio in quella torrida estate, il 29 agosto 1859, il compositore decise di sposarsi dopo un lungo decennio di convivenza — un comportamento anticonformista e decisamente “piccante” per i costumi del tempo — con Giuseppina. La coppia scelse una chiesetta dell’Alta Savoia, allora ancora unita al regno Sardo, precisamente a Collonges sous Saléve, e un prete amico. Unici testimoni il campanaro e il cocchiere. Per la Strepponi fu la fine di un periodo di silenzi, pettegolezzi e umiliazioni, per Verdi una risposta chiara quanto clamorosa alle invidie dei suoi compaesani e alle meschinità del piccolo mondo musicale. Un passaggio che Giandrea Gavazzeni individua con maestria: «essendo narratore vorrei cavare racconto, e dargli forma chiusa, dal tempo verdiano in cui il Maestro ritorna a Busseto e si rinserra con la Strepponi non ancora sua sposa. Periodo iracondo, geloso; gremito di scatti e denso di una lotta contro le convenzioni…Il punto più intenso lo distinguo nella solitudine del Maestro e della donna e quel fiutare il pettegolezzo, e l’adontarsene e il reagire. Poi, più tardi, Verdi getterà in faccia ai bussetani e in faccia al mondo la sua sublime risposta: il ritratto di Violetta Valery. Dopo quel tempo, costruita la dimora di Sant’Agata secondo minuziose esigenze domestiche, nemmeno la carrozza, nemmeno i cavalli del Maestro, passeranno più, per suo ordine, attraverso l’abitato di Busseto».
Dopo la cerimonia, la coppia non perse tempo e rientrò subito a casa: una nuova pagina di storia si stava aprendo. All’indomani di Villafranca, l’Italia della Restaurazione si era dissolta: duchi, granduchi e legati pontifici abbandonarono di gran fretta i loro palazzi e al loro posto s’insediarono governi provvisori che chiesero subito protezione al Piemonte. Anche Luisa Maria di Borbone, duchessa reggente, e il suo figlio Roberto furono costretti il 9 giugno a lasciare Parma e l’antico ducato entrò a far parte delle provincie dell’Emilia, rette da Carlo Farini. Il governo provvisorio organizzò subitamente dei plebisciti per l’annessione al Piemonte e Verdi fu scelto come rappresentante di Busseto all’Assemblea delle province del Ducato; il 15 settembre il Maestro — alla guida della delegazione parmense — fu ricevuto a Torino da Vittorio Emanuele che suggellò l’annessione.
Due giorni dopo il compositore incontrò, nella tenuta di Leri, il conte di Cavour e ne rimase profondamente colpito. In una lettera allo statista piemontese Verdi, richiamandosi a quel primo incontro, scriveva: “Io desiderava da molto tempo conoscere personalmente il Prometeo della nostra nazionalità; né disperava trovare occasione per soddisfare questo mio vivo desiderio. Quanto però non avrei osato sperare è la franca e benigna accoglienza con la quale l’Eccellenza Vostra degnossi onorarmi. Io ne partii commosso! Non iscorderò mai quel suo Leri, dov’io ebbi l’onore di stringere la mano al grand’uomo di stato, al sommo cittadino, a Colui che ogni italiano dovrà giustamente chiamare padre della Patria. Accolga con bontà, Eccellenza, queste sincere parole del povero artista, che non ha altro merito se non quello d’amare e d’aver sempre amato il proprio paese”.
Da abile politico quale era, Cavour non perse tempo e iniziò a premere sul famoso compositore affinché si presentasse candidato nelle liste del blocco moderato per le elezioni del 1861 per il primo Parlamento del Regno d’Italia. Interessante a riguardo è la lettera — un piccolo capolavoro politico — che il ministro gli scrisse il 10 gennaio. “i comizi elettorali stanno per riunirsi dall’Alpi all’Etna. Da essi dipendono non già le sorti del Ministero, ma bensì il fatto dell’Italia. Guai a noi se dalle loro operazioni fosse per riuscire una Camera in cui prevalessero le opinioni superlative, le idee avventate, i propositi rivoluzionari. L’opera mirabile del nostro Risorgimento, vicina a compiersi, rovinerebbe e forse per secoli. Io reputo quindi dovere di ogni buon cittadino in queste circostanze il fare sacrificio d’ogni particolare riguardo l’andare incontro a maggiori sacrifizii, per cooperare alla comune salvezza. Egli è da questi riflessi confortato, ch’io mi fo lecito rivolgermi direttamente alla S.V., quantunque non abbia titoli particolari per farlo, onde animarla a voler accettare il mandato che i suoi concittadini intendono conferirle. So che le chiedo cosa per lei grave e molesta. Se ciò malgrado insisto è perché reputo la sua presenza alla Camera utilissima. Essa contribuirà al decoro del Paramento dentro e fuori d’Italia, essa darà credito al gran partito nazionale che vuol costruire la Nazione sulle solide basi della libertà e dell’ordine, che imporrà ai nostri immaginosi colleghi della parte meridionale d’Italia, suscettibili di subire il genio artistico più assai di noi abitatori della fredda valle del Po”.
Il Maestro non rimase insensibile. Si candidò e fu eletto il 13 febbraio con 339 voti contro i 206 del suo avversario. L’indomani il musicista, accompagnato dalla moglie, partecipò alla solenne seduta inaugurale del nuovo Parlamento e poi, a sera, a Piazza Castello al grande concerto, durante il quale vennero eseguite musiche di Rossini, Mercadante, Novaro e — ovviamente — Verdi. L’attività parlamentare non lo entusiasmò ma fu presente alle sedute più importanti, come quelle del conferimento a Vittorio Emanuele del titolo di re d’Italia, del discorso di Cavour sulla questione del Vaticano e all’approvazione dell’ordine del giorno per Roma capitale. La morte improvvisa del grande piemontese colpì duramente il Maestro e presto il suo interesse per la politica declinò e nel 1863 abbandonò senza rimpianti l’attività parlamentare. Ciò nonostante, Verdi rimase un attento osservatore della vita pubblica e non lesinò critiche e interventi soprattutto in ambito locale — fu consigliere comunale di Villanova d’Arda e consigliere provinciale di Piacenza — a favore degli umili e dei piccoli proprietari (mal) rappresentati in Parlamento da “grosse vanità e poche teste”.
Il 15 novembre 1874 re Vittorio nominò il famoso compositore senatore del Regno. Una carica prestigiosa che Verdi accettò quasi con ritrosia: solo un anno più tardi il Maestro scese a Roma per prestare giuramento. Negli anni successivi visse l’impegno senatoriale con distacco e ironia e non svolse alcun intervento memorabile alla Camera Alta. La sua mente, i suoi pensieri, il suo genio erano altrove.
Data creazione: Thu Jun 29 16:02:32 CEST 2017