Un grande luminoso tramonto

BoitoTalvolta, attraverso percorsi imprevisti, le persone cambiano. In meglio. Fu il caso di Arrigo Boito, l’antico dileggiatore di Verdi. Nel luglio 1879, grazie  all’intervento di Tito Ricordi, l’ormai pentito “scapigliato” fu finalmente ammesso alla presenza del Maestro nella famosa suite del Grand Hotel et de Milan. L’incontro, contro ogni aspettativa, riuscì. Tre giorni dopo Boito ritornò con un’idea di libretto. Erano i primi appunti dell’”Otello”. Dopo sedici lunghissimi anni di silenzio, Verdi tornava a comporre un’opera. L’inatteso sodalizio con il giovane librettista — di 31 anni più giovane —  fu fecondo; durante la lavorazione del “moro di Venezia”, uno sforzo indubbiamente pesante per l’ormai anziano musicista, la “strana coppia” rielaborò il Simon Boccanegra”, presentato, nell’entusiasmo di critica e pubblico, a La Scala nel 1881. L’entusiasmo di Boito aveva risvegliato il “gran dormiente”. 

Milano, 5 febbraio 1887. Davanti ad un pubblico trepidante — nonostante i prezzi esorbitanti platea, palchi e loggione erano pieni sino all’inverosimile — il sipario si alzò nella sala del Piermarini. Più di quattromila persone applaudirono freneticamente il ritorno del Maestro e il suo “Otello”. Al termine della rappresentazione, il Maestro si presentò sul palco assieme ai cantanti, Arrigo Boito e il maestro Faccio: al suo apparire lo accolse un’ovazione interminabile, assordante, commovente. Una curiosità. In quella mitica serata il secondo violoncello dell’orchestra era un giovane promettente quanto indisciplinato: si chiamava Arturo Toscanini.

Verdi si ritenne finalmente soddisfatto: “Otello” poteva essere il degno sigillo della sua carriera. Ma Boito non era di quest’avviso. Per nulla. Presto iniziò a proporre all’ombroso emiliano un nuovo, grande sforzo: il ico_audio “Falstaff”. Verdi, sempre pessimista, nicchiò; in una lettera a Boito scrisse “voi, nel tracciare il Falstaff, avete mai pensato alla cifra enorme dei miei anni?”. Ma il libretto gli piaceva, lo intrigava. Alla fine — nonostante le forti resistenze della moglie preoccupata per la sua salute — cedette alle insistenze di Arrigo. Il 10 luglio 1889, da Montecatini dov’era per la cura delle acque assieme alla moglie e Teresa, finalmente amiche, diede — in una lettera che svela meglio d’ogni documento il solido rapporto di complicità e d’amore tra i due anziani coniugi — al suo librettista l’assenso. “Amen e così sia.

FalstaffFacciamo dunque “Falstaff”! Non pensiamo agli ostacoli, all’età, alle malattie! Desidero anch’io di conservare il più profondo “segreto”: parola che sottosegno anch’io tre volte per dirvi che niussuno deve sapere nulla…Peppina (la Strepponi, n.d.a) lo sapeva, credo, prima di noi… Non  dubitate: essa conserverà il segreto. Quando le donne hanno questa qualità, l’hanno in grado maggiore di noi”.

Agli inizi del 1890 il libretto era terminato ma, dopo un primo slancio, l’interesse di Verdi si affievolì. “Il gran vegliardo” era stanco e attorno a sé, funerale dopo funerale, vedeva scomparire gli amici di sempre — Clara e Andrea Maffei, Franco Faccio, Tito Ricordi, Emanuele Muzio — e aprirsi il vuoto. Eppure, anche grazie alle insistenze di Boito e Giulio Ricordi, il Maestro terminò il lavoro e “Falstaff” venne messo in cartellone il 9 febbraio 1893. Alla Prima — presenti in platea Pietro Mascagni, Giacomo Puccini, Giuseppe Giacosa e Giosuè Carducci —  il successo fu tale che si verificarono fenomeni d’isterismo popolare: venti minuti d’applausi alla fine, due bis, sette chiamate finali a Verdi e all’uscita de La Scala la folla impazzita staccò i cavalli dalla carrozza e la tirò sino al Grand Hotel. Arrivati all’albergo, Verdi dovette affacciarsi ripetutamente al balcone per salutare il suo pubblico, i milanesi.

Dopo il trionfo Arrigo Boito presentò al Maestro nuovi progetti ispirati alle opere di Shakespeare, ma questa volta il bussetano fu irremovibile. Basta opere. Negli anni seguenti scrisse i “Quattro pezzi sacri” ma la morte dell’amata Giuseppina, il 14 novembre 1897, lo sconvolse e lo affranse. Gli ultimi anni della sua lunga esistenza Verdi gli dedicò quasi esclusivamente al completamento della Casa di Riposo per Musicisti, la sua “opera più bella”.

Il 27 gennaio 1901 Giuseppe Verdi morì nell’appartamento del Grand Hotel. In quelle ore d’agonia i milanesi coprirono l’intera via Manzoni di fieno per attutire il rumore del traffico. Accanto al Maestro morente si ritrovano la figlia adottiva Maria, Teresa Stolz, Giulio Ricordi, Arrigo Boito e Giuseppe Giacosa. Come da sue volontà, il funerale fu semplicissimo, di “seconda classe”, senza fiori, né musica. Così, alle sei del mattino, il feretro del compositore attraversò la città, accompagnato da un solo sacerdote e trainato da un solo cavallo, dalla chiesa di San Francesco di Paola sino al Monumentale, dove fu sepolto provvisoriamente accanto a Giuseppina. Tutta la città si fermò per salutare silenziosamente il grande uomo.


I solenni funerali di Giuseppe Verdi (1901) from Manifesto Zero.

All’indomani della rigorosa cerimonia Teresa, da donna determinata quale era, decise di affrettare i lavori per la cripta all’interno della Casa di Riposo. Senza badare a spese, la Stolz riuscì in tempi brevissimi a rendere agibile lo spazio e ad organizzare la traslazione delle salme. Il 27 febbraio le salme dei Verdi vennero portate, con una solenne cerimonia, alla Casa. Una folla immensa accompagnò il Maestro e Giuseppina sino alla loro ultima dimora. Davanti al Monumentale, Arturo Toscanini diresse ottocento musicisti, orchestrali e cantanti che salutarono Giuseppe Verdi con il “Va pensiero”.   

Ultimo aggiornamento: Tue Jul 11 12:08:56 CEST 2017
Data creazione: Thu Jun 29 16:08:11 CEST 2017