Speranze e dolori
Sin dal suo arrivo in città Giuseppe tenta di contattare Bartolomeo Merelli, il potentissimo impresario de La Scala, per sottoporgli il suo lavoro. Inutilmente. In qualche modo, però — e qui le versioni dei biografi e dello stesso Verdi divergono e si confondono —, lo spartito arriva sulla scrivania del Merelli. Nel frattempo, come il Maestro ricorderà molti anni dopo, «qui cominciano gravi sciagure. Il mio bambino si ammala al principio d’aprile e i medici non riescono a capire quale sia il suo male e il poverino languendo si spegne nelle braccia della madre disperatissima». Un colpo durissimo per la coppia, per di più angustiata anche da gravi problemi economici.
Per sopravvivere il musicista si adatta malvolentieri a dirigere bande e cori o a orchestrare musiche di altri. Un’umiliazione. Ma un giorno, come racconterà Verdi, la fortuna bussa nuovamente alla sua porta: «un bel mattino venne un servitore del teatro dicendomi che Merelli voleva parlarmi. Io non avevo mai parlato a Merelli e credevo vi fosse uno sbaglio nell’invito, nonostante andai. Merelli mi disse queste precise parole: “Ho sentito parlare bene dalla Strepponi e da Ronconi della vostra opera, se volete adattarla per la Marini, Salvi ecc. io ve la farò eseguire senza nessuna vostra spesa. Se l’opera piacerà la venderemo e divideremo il ricavato, se non piacerà tanto peggio per voi e per me…». È la salvezza: il bussetano ha finalmente l’opportunità di provare le sue capacità davanti all’esigente platea del teatro scaligero. Un’occasione unica.
A questo punto è necessaria una digressione. Nel suo affannarsi, Verdi ha sicuramente incontrato il soprano Giuseppina Strepponi, una presenza decisiva nella sua vita. Seconda la descrizione di Massimo Mila la cantante lodigiana è «belloccia, un po’ piccolina, intelligente e colta, dotata di voce cattivante e gradevole, ma soprattutto d’un forte temperamento d’interprete» .
Nonostante le divagazioni del Maestro sul punto, è evidente che il compositore portò alla nuova “stella” del melodramma lo spartito per un consiglio, ed è altrettanto ovvio che la Strepponi, donna acuta, comprese subito le incredibili potenzialità dell’arruffato musicista emiliano. E forse, proprio quel giorno, tra i due scattò la fatidica scintilla. Ma, come nota l’Oberdorfer: «Per tradizione, gli amori di Verdi sono avvolti da un casto velo di mistero, tutti, dal primo episodio con la Strepponi, che secondo ogni verosomiglianza, è anteriore alla morte di Margherita, a quello con la Stolz».
Certo è che Giuseppina è determinante nella scelta di Merelli. Il 17 novembre 1839, dopo quattro anni di lavoro e di angosce, “Oberto, conte di San Bonifacio” va in scena. Il libretto, di Antonio Piazza, è stato revisionato e sviluppato da Temistocle Solera, un intellettuale vicino al movimento nazionale e patriottico italiano. Un incontro importante che apre al musicista nuovi orizzonti.
Il melodramma — anche grazie alla voce della Strepponi — ha un discreto successo e quattordici repliche. Bartolomeo Merelli è soddisfatto e propone a Verdi un contratto per tre opere, “da rappresentarsi a Milano o a Vienna” che assicura all’artista — finalmente — 4000 lire austriache per opera e la metà degli utili derivanti dalla vendita degli spartiti: la tanto agognata sicurezza economica.
Ma il fato decide altrimenti. Mentre Giuseppe si lancia con entusiasmo nel lavoro e immagina di musicare per voce e pianoforte “Il 5 maggio” di Manzoni — l’influenza di Solera e il contatto con i circoli patriottici è evidente —, la moglie si ammala: meningite. Per la tenera Margherita, affranta dal dolore per la morte dei suoi bimbi, non vi è speranza e il 18 giugno 1840 si spegne. Verdi vacilla, la sua famiglia è distrutta.
Giuseppe fugge a Busseto e si rinchiude nella casa del suocero, ma Merelli, forte del suo contratto, lo tempesta di lettere. Alcune comprensive, altre fredde, alcune ultimative. Per accontentare il callido impresario ma anche per reagire al dolore, l’artista compone frettolosamente “Un giorno di regno”, la sua opera peggiore. Il 5 settembre 1840 il pubblico de La Scala contesta e dileggia la rappresentazione: fischi e lanci di frutta rancida sul palcoscenico, insulti e beffe nel foyer. Una catastrofe.
Verdi reagisce malissimo e s’inabissa nella disperazione più nera. Anni dopo — nel 1859, dopo le tiepide accoglienze al “Simon Boccanegra” — il compositore ricorderà in una lettera a Tito Ricordi quella serata con toni amari: «questo stesso pubblico maltrattava l’opera d’un povero giovine ammalato, stretto dal tempo e con il cuore straziato da un’orribile sventura!
Tutto questo si sapeva, ma non fu ritegno alla scortesia. Io non ho più visto da quell’epoca il “Giorno di regno”, e sarà certo un’opera cattiva, pure chi sa quante altre non migliori sono state tollerate o forse, anche applaudite. Oh, se allora il pubblico avesse, non applaudita, ma sopportata in silenzio quest’opera, io non avrei parole sufficienti per ringraziarlo! Ma finché ha fatto buon viso ad opere che fecero il giro del mondo, le partite sono pari. Io non intendo condannarlo: ne ammetto la severità, ne accetto i fischi, alla condizione che nulla mi si riecheggia per gli applausi. Noi poveri zingari, ciarlatani e tutto quello che volete, siamo costretti vendere le nostre fatiche, i nostri pensieri, i nostri deliri per dell’oro — il pubblico per tre lire compera il diritto di fischiarci o di applaudirci. Nostro destino è di rassegnarci: ecco tutto». Il pessimismo, la spiccata tendenza alla depressione è già evidente.
Nonostante che Merelli — da vecchia volpe dello spettacolo, l’uomo era uso ai trionfi e ai naufragi — ribadisca la sua fiducia allo sconvolto musicista, Verdi chiede d’essere sciolto dal contratto e decide d’abbandonare il mondo del teatro. Furono i giorni della disperazione più nera. Dopo una breve visita a Busseto, probabilmente non felice, Giuseppe ritorna a Milano, appartandosi da tutto e tutti, in cerca d’oblio e tranquillità. Ma, una volta di più, il destino aveva deciso altrimenti.
Data creazione: Thu Jun 29 15:37:29 CEST 2017