Va' pensiero
Il 9 marzo 1842 il “Nabucco” andò finalmente in scena a La Scala. Sino all’ultimo momento Verdi dovette lottare con la tirchieria di Merelli che gli impose — per lesina — di recuperare scene e vestiari usati dai magazzini. Ciò nonostante, come il Maestro racconterà «i costumi raffazzonati alla meglio riescono splendidi. Scene vecchie, riaccomodate dal pittore Perroni, sortono invece un effetto straordinario: la prima scena del tempio in specie produce un effetto così grande che gli applausi del pubblico durano dieci minuti».
Come è noto la Prima fu un trionfo. Seguirono otto recite subito e ben 57 — un vero record per l’epoca — tra agosto e settembre. Sebbene la critica esprimesse perplessità e riserve — soprattutto sulla generosa ma ormai, artisticamente, declinante Strepponi —, il pubblico non ebbe dubbi e incoronò Verdi quale suo nuovo beniamino. Caustico, invece, il commento di Gioacchino Rossini che definì, dopo aver letto lo spartito, il giovane emiliano “un compositore col casco”. Evidentemente l’impetuosa musica verdiana non era nelle corde dell’autore de “Il Barbiere di Siviglia”, che aggiunse perfido: “se non avessi conosciuto il nome del compositore, avrei scommesso che fosse un colonnello d’artiglieria”.
Gelosie e riserve a parte, con il “Nabucco” Giuseppe Verdi entra in piena sintonia con il sentimento che ormai scuote segmenti sempre più larghi della società civile lombarda e italiana: il patriottismo. In una città sempre più insofferente degli assetti fissati a Vienna nel 1815 dalle forze della Restaurazione, ogni segno di discontinuità — casuale o voluto — con le regole e i simboli imposti dal governo austriaco diventa una bandiera. È il destino del “Va, pensiero, sull’ali dorate”, momento centrale dell’opera.
Da sempre i biografi — non gli agiografi, ovviamente — si chiedono se Verdi e Solera — ricordiamo, però, che il librettista era figlio di un affiliato alla Carboneria e lui stesso era vicino ai circoli dell’opposizione “neoguelfa” — ebbero da subito chiara la portata politica del loro messaggio musicale. La questione resta ancor oggi controversa ed intricata. Certo è che il “Nabucco” era ufficialmente dedicato — un omaggio dovuto all’occhiuta censura asburgica? — alla figlia del viceré austriaco e mai, persino dopo l’incendio del 1848-49, le autorità imperiali proibirono l’esecuzione delle opere verdiane nei teatri del Lombardo Veneto e degli stati satelliti. Per di più le note del “Nabucco” risuonarono pochi mesi dopo la Prima scaligera — con gran gioia del compositore, uomo concreto, che vedeva dischiudersi una carriera internazionale —a Vienna, la capitale dell’impero…
Per capire le ragioni degli atteggiamenti — sia quelli delle autorità sia quelli dell’artista — è, dunque, necessario contestualizzare la situazione. Nel 1842, il Lombardo Veneto e l’Italia per l’Austria sono un’area relativamente tranquilla. Dopo il fallimento delle congiure di Confalonieri e la dura repressione del 1821-22, l’ordine sembra regnare in val Padana. Dai documenti di Metternich, il grande architetto del congresso di Vienna e sommo regista delle politiche asburgiche, non emergono, infatti, particolari preoccupazioni per le sorti delle province italiane e tanto meno dei ducati e della Toscana. Ad inquietare il principe, caso mai, è l’arretratezza della teocrazia romana e le politiche isolazioniste di Ferdinando di Borbone, spigoloso sovrano delle Due Sicilie.
Nella lontana capitale d’oltralpe il malessere sociale e politico, causato principalmente dalle rapaci politiche fiscali viennesi, di Milano e della Lombardia è sottovalutato se non ignorato. A sua volta, il governo vicereale, è quasi del tutto incapace di cogliere i segni di un passaggio epocale — la rivoluzione industriale lombarda è ormai una realtà e l’imprenditoria è ansiosa di riforme adeguate —, e rimane convinto che gli equilibri fissati all’indomani della Restaurazione tra impero e classi dirigenti lombarde — il “grande equivoco” come lo chiamò Giorgio Rumi — siano sempre saldi nonostante i mugugni, le proteste, le richieste di modernizzazione e razionalizzazione del sistema. Certo, il panorama socio politico del tempo è complesso e segmenti importanti dei ceti forti — pensiamo al podestà Casati o allo stesso Cattaneo, due protagonisti delle Cinque Giornate — scettici su ipotesi “unitariste” e larga parte del “popolo minuto” è distante o ostile ad ogni “avventura”. Per molti la follia giacobina delle effimere repubbliche filo francesi e la temperie napoleonica — un susseguirsi di guerre e sconvolgimenti — sono ricordi freschi e ferite aperte.
Ancor meno importanza è data dai burocrati della potenza occupante al processo di rinnovamento civile ed artistico che ha il suo centro propulsore proprio a Milano; la netta distanza dagli ambienti cospiratori — la velleitaria carboneria e la ben più seria Giovine Italia — di Manzoni, Hayez, Cattaneo e dello stesso Verdi, rassicura il potere. Da qui una certa tolleranza e un’elasticità verso alcuni settori della società — i letterati, i musicisti, i pittori — ritenuti privilegiati quanto politicamente innocui.
Un errore, l’ennesimo, di un impero ormai stanco e miope. Dopo il disastro delle ingenue manovre carbonare del 1821 — un pericoloso “gioco di società” sbaragliato dalle dure condanne allo Spielberg — a Milano l’opposizione ha imboccato nuove strade, nuovi percorsi. Meno incauti ma più efficaci: il terreno delle idee.
Oltre i dettami di certo manierismo risorgimentale, la grande rinascita culturale «del nostro Ottocento come valore connesso all’idea di patria unitaria ha proprio nelle arti, letteratura, arte figurativa, musica e storiografia, le sue espressioni più persuasive e feconde. Si sentiva l’esigenza di rappresentare attraverso tali linguaggi soprattutto la vita e lo sviluppo di un popolo all’interno di un panorama che aveva i suoi confini e il suo fine nella creazione dell’idea di nazione. La vita culturale milanese da questo punto di vista fu esemplare».
Da qui la nostra convinzione che sin dagli esordi meneghini e con sempre maggiore consapevolezza, l’artista emiliano respirasse quest’aria nuova e frizzante; nota dopo nota, discussione dopo discussione, incontro dopo incontro, inevitabilmente il bussetano, ormai inurbato, divenne parte e, poi, protagonista del movimento di rigenerazione della cultura e dell’arte italiana — un’atmosfera potente che sarà prodromica all’azione politica e poi, nel ’48, al momento insurrezionale —. Al tempo stesso l’artista avvertì sempre più i limiti soffocanti, che sfidò a più riprese, della censura e la limitatezza degli orizzonti reazionari. Poco importa, dunque, il grado di sensibilità politica di Verdi al tempo del “Nabucco”. Le sue musiche e i versi di Solera erano in perfetta sintonia con le sensibilità del pubblico e lo “spirito del tempo”.
Di certo, come scrive Massimo Mila, «quella sera del 9 marzo il pubblico capì al volo l’antifona: gli eleganti ufficialetti austriaci in divisa bianca che frequentavano le Prime de La Scala dovettero sentire, forse per la prima volta, l’odio del popolo oppresso come qualcosa di solido, spesso, concreto, da toccare con mano. Questi italiani così bravi, così simpatici, così imbelli, cosa gli prende?»
Data creazione: Thu Jun 29 16:21:47 CEST 2017